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Sulle colline di Pantelleria un microcosmo agricolo per piantarvi radici stagionali, scelto e riadattato da Flavio Albanese per trascorrervi giorni di vacanza o di tranquillo lavoro.
Se i normanni hanno lasciato qualche glauco sguardo tra la popolazione, non sono riuscito invece a trovare a Pantelleria segni della presenza dei lotofagi. Era l’argomento più attraente, da quando ero approdato a quest’isola dove i leggiadri personaggi omerici avrebbero coltivato lo stinco o lentisco traendone il soporifero e inebriante vino. Girando in lungo e in largo l’isola, ebbi modo di verificare ben altre testimonianze della storia di questa nera Cossyra, affogata nel centro del Mediterraneo, più vicina all’Africa che alla Sicilia, battuta dai venti caldi e freddi, frustata dallo scirocco e accarezzata dal libeccio. Costruzioni megalitiche (i “sesi”), pensate da popoli primitivi cacciatori, la vecchia acropoli fenicia, i templi e monumenti dell’età dedicati alla dea Tanit, al cui culto venivano sacrificati i primogeniti; i resti di edifici costruiti dai romani, che qui sostavano nelle loro attraversate per il commercio delle fiere africane per Tito o Traiano.
Immagini del complesso di San Vito
Il complesso di San Vito: gli esterni e gli interni
I “dammusi” –costruzioni domestiche su muri a secco e coperte a dorso di mulo- riferiti alla tipologia araba della “cuba”
E poi ancora i monaci basiliani in epoca bizantina, che edificarono conventi in cui giunsero, intorno all’835, gli arabi, che dopo aver messo a ferro e a fuoco Siracusa, splendida capitale della Sicilia bizantina, si impadronirono dell’isola. Pantelleria cominciò così a caratterizzarsi, con gli stessi edifici tuttora in uso. Sorsero i “dammusi” –costruzioni domestiche su muri a secco e coperte a dorso di mulo- riferiti alla tipologia araba della “cuba”. Fu in questo periodo che ebbero inizio l’irrigazione e la conseguente coltura delle terre: l’isola si trovò così tratteggiata da migliaia di chilometri di muri e terrazze che la disegnano ancor oggi come segni di impronte digitali. I normanni, gli svevi, gli angioini, gli aragonesi, gli spagnoli, i piemontesi e i borboni lasciarono alla fine dei loro domini segni genetici sui visi ben disegnati e quanto mai vari dei panteschi, piuttosto che lasciare cospicue tracce nel paesaggio costruito. La cultura architettonica dell’isola –e pertanto il suo patrimonio più rilevante- è costituita dalla presenza di queste costruzioni arabe, molto spesso riunite in piccoli gruppi, a formare piccoli villaggi polifunzionali, dove la stalla è scostata dall’abitazione, con a fianco i magazzini, le aie e i giardini. Ed è a uno di questi microcosmi agricoli che si rivolse la mia attenzione quando decisi di piantar “radici stagionali” in questa isola del vento.
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Nell’estrema desolazione in cui passato e futuro si scontrano all’altro estremo, si apre una porta su un giardino, dove il tempo è immobile, luogo e mira di ogni desiderio; Iside abbraccia e doma due orse.
Lavorai per molti mesi, un po’ sotto il sole e qualche volta sotto la sottile pioggia che riempie le cisterne. Con me c’era Alberto, e molti amici mi aiutarono. Poi Luciano mi diede alcune sue opere: una soprattutto era fatta per questa isola e per questo mio rifugio. Unì ad esse questi brevi testi: “Si viaggia per deserti e per mari guidati dalle costellazioni. Isole e oasi. Tuttto il cielo si svolge intorno alla stella polare. Cerchi sempre più vasti sud. A nord tutto si congela. Nell’estrema desolazione in cui passato e futuro si scontrano all’altro estremo, si apre una porta su un giardino, dove il tempo è immobile, luogo e mira di ogni desiderio; Iside abbraccia e doma due orse.
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Lo scopo della nostra escursione era comunque un altro, l’immortalità ci appare noiosa, una punizione da evitare.
Su quell’isola si poteva accedere solo attraverso gli impalpabili cammini del sogno; l’isola cresceva su strati concentrici, separati da altri strapiombi; il penultimo anello era percorso da un’unica pianta elastica che spesso si piegava, quando cavalcata, sbalzando i rari avventurieri nei duri spazi degli anelli inferiori; in cima ci aspettava un campo di viti, o almeno così sembrava (di fatto si vedevano solo filari che accennavano alla vigna, ma non c’erano foglie e non c’era uva); il cammino tra i filari fino al palazzo di cristallo non era facile, le guardie vigilavano e catturavano gli esploratori, a volte li uccidevano; entrati nel palazzo, un grande padiglione trasparente che emanava luce sul resto dell’universo, si raggiungeva una zona di mediazione, dove si potevano decidere le sorti della propria esistenza; lo scopo della nostra escursione era comunque un altro, l’immortalità ci appare noiosa, una punizione da evitare; incominciammo a rotolare con dolore fino all’albero flessibile e poi sulle rocce, e giù giù da dove eravamo arrivati” (Flavio Albanese)
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