L’accoglienza è lo scopo di tutti i lavori firmati da Albanese
Qualche anno fa Flavio Albanese ha chiesto a Richard Long di realizzare una scultura di fronte a uno dei dammusi che si trovano nella sua proprietà nell’isola di Pantelleria. Sulla spianata prospiciente l’ingresso del piccolo volume voltato, forse occupando lo spazio del recinto in origine adibito alla coltivazione dell’orto, Long ha costruito un cerchio formato da pietre laviche, le stesse utilizzate per edi care ogni preesistente muratura presente nei dintorni. L’opera di Long accoglie quanti ora occupano il dammuso; è uno dei tanti episodi che Albanese ha costruito nella proprietà per renderla ospitale, giungendo sino al punto di trasformare un cratere con l’invaso terrazzato in un teatro a cielo aperto e di stendere delle tende colorate a disegnare un percorso ombreggiato tra i diversi corpi di fabbrica che costituiscono il nucleo centrale di questa sua residenza diffusa.
L’accoglienza è lo scopo di tutti i lavori firmati da Albanese, a partire dai primi arredi o restauri realizzati occupando quel terreno non ben definito dove sono soliti muoversi, ai loro esordi, gli architetti non diplomati, quelli che, come nel suo caso, alla formazione accademica hanno anteposto la pratica. I tanti riallestimenti di ambienti residenziali da lui realizzati anche in tempi recenti sono prove di come Albanese miri a renderli pragmaticamente affabili, senza troppo concedere alle mode e instaurando con i fruitori relazioni e rapporti volti a modellarne di conseguenza i comportamenti e gli usi. Questa peculiarità delle prime opere firmate da Albanese, con il trascorrere degli anni non si è attenuata, nonostante ora lo studio da lui fondato sia occupato dall’esecuzione di opere impegnative, con le destina-zioni più diverse, e dalla elaborazione di progetti sempre più complessi per i più vari committenti.
Concependo i suoi progetti quali occasioni per rendere soggettivamente ospitali gli spazi all’interno dei quali vivono e lavorano quanti a lui hanno affidato il compito di configurarli
Lo studio Albanese è attualmente una realtà professionale che ricambia la fiducia dei committenti mettendo al loro servizio capacità e competenze ormai collaudate, maturate anche grazie alle diverse esp-rienze compiute dal suo fondatore spingendosi lontano dal terreno angusto dove si è formato e dove ha esordito, seguendo poi una traiettoria punteggiata dai suc-cessi che ha ottenuto oltre che nel campo più specificatamente architettonico, anche in quelli del design, intendendo il termine in una accezione ampia, oppure dell’editoria specializzata. Questa traiettoria, però, non ha portato Albanese a derogare dal principio al quale si è attenuto sin dal debutto, concependo i suoi progetti quali occasioni per rendere soggettivamente ospitali gli spazi all’interno dei quali vivono e lavora- no quanti a lui hanno affidato il compito di configurar- li, convinto com’è che accoglienza e architettura siano termini strettamente connessi.
(Francesco Dal Co)
Su ASA Studio Albanese si è scritto poco. Anche se non si può parlare di un vero e proprio deserto storiografico, critici e altri commentatori si sono dimostrati scarsamente inclini ad approfondire un percorso professionale, tanto atipico quanto sintomatico nel panorama dell’architettura italiana contemporanea, intrapreso più cinquant’anni fa dal suo ispiratore e fondatore, Flavio Albanese. Da allora, la biografia del progettista s’incrocia, sfuma e talvolta s’identifica nella storia collettiva del suo studio. I caratteri del primo, personaggio spesso e complesso, per alcuni versi limpido e per altri inafferrabile, influenzano e sono a loro volta influenzati dalle vicende del secondo, dalle intelligenze che vi transitano, dal lavoro che vi si svolge. Così, una stessa parola chiave identifica al meglio tanto l’indole di Albanese quanto lo specifico approccio di ASA Studio Albanese: eclettismo. Un eclettismo profondo e sostanziale, che non è proprio solo degli stili e dei linguaggi dei progetti finiti, ma anche dei modelli e dei maestri a cui ispirarsi, delle scale e delle discipline su cui riflettere, delle tipologie degli incarichi professionali e culturali con cui confrontarsi.
Le poche fonti a disposizione rendono la scrittura di queste pagine un esercizio stimolante, che richiede una buona dose di slancio critico. È un’esplorazione in un territorio ancora da mappare, fatto di più di mille progetti portati a termine e d’infinite attività collaterali, che ha come unica, affidabile cartografia di supporto una recente conversazione tra l’autore e il personaggio in cerca di autore. Senza pretesa di esaustività, ne è derivata storia in cui si incrociano momenti, luoghi e persone, esperienze e progetti, temi e domande. Meglio sarebbe dire la bozza di una storia, necessariamente incompleta, che rispetta un ordine cronologico di massima ma non si nega qualche divagazione. Una storia esplorativa, incerta, aperta ad aggiunte e correzioni, che si vuole tanto mutevole quanto il suo oggetto.
Così, una stessa parola chiave identifica al meglio tanto l’indole di Albanese quanto lo specifico approccio di ASA Studio Albanese: eclettismo
Classe 1951, vicentino, Flavio Albanese ha tante caratteristiche del self made man. Di famiglia numerosa e modesta, padre minatore socialista, deriva dalle sue origini “un senso dell’etica, della morale molto alto, forse anche eccessivo”. Lo mette alla prova sul volgere deglidegli anni ’60, nelle prime esperienze di lavoro in un’impresa edile, che sono altrettanti momenti di formazione sul campo, da autodidatta, sostitutivi di un più canonico percorso universitario. Incrocia in questi anni i suoi maestri: nel 1967 entra come apprendista nello studio vicentino dei fratelli Eugenio e Federico Motterle, riconoscendo in quest’ultimo le qualità di architetto colto. Incontra fugacemente Carlo Scarpa, che si appoggia all’epoca proprio a Federico Motterle per la realizzazione dei suoi progetti, e resta inebriato dall’aura del decano dell’architettura veneta: “Era difficile sottrarsi alla prepotenza di un maestro che avevo sfiorato”. Dai Motterle Albanese precisa la sua vocazione bifronte di uomo del cantiere e pensatore. Non un architetto-intellettuale, che conforma ogni progetto di trasformazione del reale agli a-priori delle proprie elaborazioni teoriche. Piuttosto un costruttore curioso, spinto dall’urgenza di “significare” le sue abilità manuali, la famigliarità con gli strumenti del mestiere, il pragmatismo del cantiere tramite un sistema sempre più caleidoscopico di riferimenti disciplinari ed extra-disciplinari, desunti innanzitutto dal mondo dell’arte e della filosofia. Questo approccio lo guida quando, i vent’anni non ancora compiuti, apre il suo primo studio con un amico fotografo. Con una traiettoria tipica di chi non ha attraversato l’università, si avvicina all’architettura da ambiti a essa prossimi e storicamente più inclusivi: disegna grafiche per industrie e negozi, progetta piccoli ogget-ti, fa fotografie. Si approccia con questi primi incarichi alla committenza borghese e imprenditoriale che lo accompagnerà nei decenni successivi. Si posiziona nella scena creativa e sul mercato locale progressivamente, con un po’ di strategia, molte coincidenze e un tocco di fatalismo: “Tutto è successo perché è successo”. Gli anni ’80 segnano un salto qualitativo nella carriera di Albanese. Già nel 1979 conclude il suo primo progetto architettonico significativo, la ristrutturazione della Serra di Palazzo Angaran a Vicenza, primo di tantissimi interventi su fabbriche storiche del Veneto – tra i più importanti il Palazzo Bonin Longare a Vicenza (1980-2000), la Rocca Pisana a Lonigo (2002), il Palazzo Lanzi Bonaguro a Vicenza (2002). La serra è la sua casa, il suo studio e soprattutto il cenacolo di una vita sociale brillante. Qui invita e seduce la buona società e da qui passano nel tempo scrittori, poeti e altri intellettuali, da Neri Pozza a Franco Fortini, da Jorge Luis Borges ad Andrea Zanzotto. Tout se tient: padrone di casa in questo luogo storico, mattatore dei suoi eventi mondani, legittimato da numi tutelari dotati di notevoli personalità, Albanese si afferma rapidamente nella sua regione come l’architetto del momento, “di moda”.
Alla serra vicentina approda anche Isa Tutino Vercelloni, storica direttrice di «Casa Vogue. È un colpo di fulmine: da allora la rivista milanese segue con costanza il lavoro di Albanese, anche con un numero 111 quasi monografico, dell’ottobre 1980. Non è un caso che proprio le riviste d’interni – oltre a «Casa Vogue»,«Casa Amica» e «Architectural Digest», per citarne alcune – più lontane dalle costruzioni critico-storiografiche dominanti tra le testate di architettura, diano presto visibilità a un progettista atipico come Albanese. Le sue realizzazioni dei primi anni ‘80 oscillano tra due poli: da un lato un approccio artigianal-sperimentale, che è quello ad esempio della serra e dell’appar- tamento veneziano nella Scuola degli Albanesi (1985), dall’altro l’influenza della vague postmodernista. Pre-sente in filigrana in alcuni progetti veneti, come la Pro- fumeria Florian di Vicenza e la sostanzialmente brutalista Chiesa di Mezzavia (entrambe del 1982), si dispiega appieno nei primi, metropolitani incarichi mi- lanesi. Ma, confessa Albense, in sostanza «ho fatto qualche scarpianata». Le geografie del suo lavoro si ampliano rapidamen- te mentre aumenta la scala e la varietà degli incarichi. Alla collaborazione con Driade (dal 1977) si aggiungo- no quella con Lanerossi, Rossitex e tante altre; si molti- plicano i progetti d’interni e le ristrutturazioni di archi-tetture storiche; si completano i primi cantieri di scala medio-grande, come quello per Agripolis, la nuova sede della Facoltà di Zootecnica e Agraria dell’Università di Padova (1988). Sull’onda di questo successo crescen- te, il decennio si chiude, almeno simbolicamente, con un’altra importante transizione professionale: nel 1987 Albanese amplia e consolida la struttura del suo studio, coinvolgendo come partner, il fratello Franco, archi- tetto, nella creazione di ASA studio Albanese. La parabola di Albanese è tipicamente veneta. Il self made man, come sempre accade, si costruisce in un contesto che premia l’intraprendenza, l’abnegazione al lavoro, la capacità di costruzione del personaggio e delle relazioni.
La sfida è quella di distanziarsi dalle dinamiche di un territorio che sembra ostile, dove si costruiscono improbabili fantasie vernacolari e kitsch without architects
Così, è in primo luogo nel ricco Veneto imprenditoriale – «un ambiente che ho introiettato ma non subìto» – che Albanese trova sfide e opportunità. La sfida è quella di distanziarsi dalle dinamiche di un territorio che sembra ostile, dove si costruiscono improbabili fantasie vernacolari e kitsch, without ar- chitects, e dove le città si smaterializzano nella forma “diffusa” di una pianura completamente antropizzata e urbanizzata. L’opportunità è quella di stabilire collaborazioni durature con committenti dalle molte esi- genze e dalle grandi disponibilità economiche, spesso disposti a farsi guidare dal progettista in un percorso di crescita anche personale. Albanese s’impegna a «tradurre il loro saper fare in un saper costruire e in un saper abitare». Il sodalizio più proficuo è quello con la famiglia Dalla Rovere, nato nel 1976 da un appartamento e dagli interni di una catena di negozi di jeans e sfociato, molti anni dopo, in una delle migliori realizzazioni di ASA Studio Albanese. L’headquarters Neores di Schio (1999) è una forte dichiarazione contro il consumo di suolo. Solo il 10% del lotto a disposizione, l’ultimo di- sponibile in un’area industriale ormai satura, è occupa- to da un edificio che intende essere iconico, un volume parallelepipedo dal rigoroso linguaggio che rimanda al neo-International Style. La maggior parte dei 24 mila metri quadri costruiti, però, sono ipogei.
Il progetto reinventa coraggiosamente la tipologia della fabbrica, standardizzata e cristallizzata, e ne riduce drasticamente l’impatto ambientale, nel senso più lato e sostanziale del termine. La ghiaia dello scavo, ad esempio, confluisce nel calcestruzzo della costruzione, limitando notevolmente la movimentazione di mezzi. Soprattutto, la copertura della “fabbrica non fabbrica” sotterranea torna a essere terreno permeabile, frammento superstite della campagna, che spicca nel suo intorno come un’assenza, un vuoto. La Neores di Schio è il più notevole di tanti edifi- ci a funzione direzionale e produttiva che ASA Studio Albanese realizza in Veneto – tra gli altri le sedi direzionali Sonus Faber a Vicenza (2001) e Magraf a Chiampo (2006) e il più recente ampliamento dell’headquarters Fope a Vicenza (2016). Pubblicato in breve tempo su diversi quotidiani e testate specialistiche e non, l’edificio di Schio garantisce al suo progettista un primo momento di grande visibilità anche presso il pubblico generalista dei non addetti ai lavori e il suo interesse è stato riconosciuto recentemente anche dal Ministero dei Beni Culturali, che lo ha inserito nel Censimento Nazionale delle Architetture del Secondo Novecento. La riflessione sulla possibilità d’introdurre qualità in una regione fortemente industrializzata e urbanizzata che ne è carente, il Veneto, è alla base anche di una sequenza di progetti residenziali a basso costo, dal- la prima Casa Bianca ad Altavilla (2009) in poi. Nel territorio della città-dormitorio, invasa da anonime lottizzazioni di ville e villette, ASA Studio Albanese con- cepisce micro-aggregazioni di unità variamente inter- dipendenti, che ricercano un rapporto più consapevole tra abitazione individuale e passaggio alla grande scala. Innovativi sul piano spaziale e dal linguaggio schiettamente contemporaneo, molti di questi progetti rie- vocano al tempo stesso il volume archetipo della casa, parallelepipedo con tetto a falda, rendendosi così immediatamente decifrabili nella loro funzione.
La fase espansiva di ASA Studio Albanese prosegue negli anni ’90. Si occupa a Milano della riconversione e dell’ampliamento di molti complessi ex-industriali, come il SINV Terminal sui Navigli (2000), ma anche della ri- strutturazione della storica Villa Sommaruga (2004). A Palermo recupera l’antico Palazzo Pecorella (2003) e rinnova la sede de La Rinascente (2006), la cui faccia- ta astratta e traslucida introduce una pausa tra gli edifi- ci ottocenteschi di via Roma. In Franciacorta ristruttu- ra la cantina Bersi Serlini (2002), contribuendo così al trend allora in ascesa delle cantine d’autore, e a Lerici una Casa sulla scogliera (2008). Progetta gallerie d’ar- te a Torino (Franco Noero, 2003), a Verona (Galleria Studio La Città, 2005) e a Milano (Viasaterna, 2012). Mette a frutto l’esperienza accumulata dagli anni ’80 nel campo del retail, con Fiorucci e Trussardi, nel dise- gno degli showroom di marchi come Fope (dal 2014) e Thom Browne (dal 2017).
Il Rocco Forte Verdura Resort di Sciacca è tra i cantieri più importanti e di taglia più rilevante di ASA Studio Albanese, che vi lavora dal 2005. Le tante architetture già realizzate o in corso di realizzazione nel sito di più di 300 ettari – tra le altre le 203 camere e su- ites, la spa di 4.000 metri quadri con quattro piscine, la main pool di 80 metri, le 80 ville con vista mare, il centro congressi – che combina il ricorso a forme e linguaggi schiettamente contemporanei con un sensibile contestualismo dell’organizzazione planimetrica e volumetrica, oltre che dei materiali e dei colori utilizzati. Mentre il suo studio cresce rapidamente, nel 2007 Albanese è chiamato a dirigere la rivista «Domus», un’occasione per molti versi inaspettata e un momen- to di legittimazione culturale importante, che si combina con l’avvicinamento al mondo dell’insegnamento, in università italiane ed europee e con altri riconoscimenti di rilievo – ad esempio la selezione al Mies van der Rohe Award dell’headquarter Neores (2003) e due partecipazioni alla Biennale di Venezia (2005 e 2007).
La linea culturale della «Domus» diretta da Albanese rispecchia il suo approccio alla progettazione. Da un lato valorizza il ruolo della redazione, che come lo studio si fa spazio di riflessione collettiva e di lavoro collegiale.
La linea culturale della «Domus» diretta da Albanese rispecchia il suo approccio alla progettazione. Da un lato valorizza il ruolo della redazione, che come lo studio si fa spazio di riflessione collettiva e di lavoro collegiale. Al contempo, fa della rivista non un luogo della teoria, dell’affermazione di verità, ma un supporto per esplorare le complessità dell’ambiente costruito, con un atteggiamento che lo stesso lettore è invitato ad adottare. Il suo primo editoriale è un ironico invito al “naufragio”: «Non saremo capaci di raccontarti la verità, ma ci piacerebbe essere in grado di diffondere ‘oneste bugie’, per ragionare insieme e sentirci meno soli», vi si legge. «Affronteremo con te, mese dopo mese, il mare tumultuoso della contemporaneità, augurandoci un sereno, perenne naufragare».
Si è detto all’inizio della necessità di costruire pressoché da zero una cartografia del lavoro di ASA Studio Albanese e del suo fondatore. In questo senso, tre progetti realizzati nel corso degli ultimi 15 anni o poco più emergono come possibili riferimenti storiografici e ne rappresentano al meglio ricerche, ossessioni e passioni. È completata nel 2004 l’estensione dell’Aeroporto di Pantelleria, isola che Albanese frequenta dagli anni ’80, quando vi realizza la sua casa di vacanze, riadat- ando un gruppo di dammusi. La proposta di ASA Stu-dio Albanese combina la sperimentazione spaziale di una soluzione quasi interamente ipogea e la ricerca for- male di un linguaggio esuberante, più artistico che ingegneristico, rappresentato al meglio nelle risalite mobili modellate come scintillanti colate di lava. Lontano dagli scali monumentalizzati e ipertecnologici di quegli anni, l’aeroporto di ASA Studio Albanese prende le distanze anche dalle derive “greenwashing” dell’ar- chitettura contemporanea. Al surplus gratuito di verde superficiale e di soluzioni che si vogliono smart, eco e green preferisce un’opzione decisamente più radicale, permettendo al delicato ecosistema insulare di rico- stituirsi sulla sua copertura. L’Aeroporto di Pantelleria è un progetto raffinato e onesto, rappresentativo di un modo di fare architettura “insofferente agli –ismi”.
Una decisa impronta “a la Koolhaas” si riconosce nel Polo agroalimentare di Monselice (dal 2016) e so- prattutto nella Hybrid Tower di Mestre (2012), un’architettura intesa come un contenitore, ma anche un’infrastruttura e, quindi, un supporto. Un parcheggio-discoteca, uno studio di registrazione, un centro medico, una palestra, residenze in quota e all’ultimo piano un ristorante con terrazza panoramica: il programma complesso della torre si traduce nei suoi vo-lumi e nel loro trattamento differenziato. La scelta di ridurre la cubatura totale a una dimensione più ragionevole di quella consentita dal regolamento edilizio è stata cruciale per il successo dell’operazione, ambiziosa e già fallita diverse volte in precedenza, in una città quale Mestre, città-snodo tra terra e laguna, immensamente potenziale ma perennemente in crisi, dove si sono moltiplicati negli ultimi anni interventi scoordinati. Torre-faro, “landmark multifunzione”, la Hybrid Tower spicca nella produzione di ASA Studio Albanese come il più compiuto omaggio al Veneto, innestato in uno dei suoi luoghi più sensibili.In questi anni alla guida dello studio si aggiunge ai due fratelli Albanese un nuovo partner: l’architetto Piero Corradin e dall’inizio del secondo decennio del 2000 fino a oggi, ASA Studio Albanese progetta, con Heim Balp Architekten, la riconversione del comples-so di Lindower 22, nel quartiere di Wedding a Berlino.
I 10 mila metri quadri di questo sito ex-produttivo tardo ottocentesco, sono lo spazio ideale dove perfezionare le riflessioni sulla conservazione e la riattivazione del patrimonio industriale, già avviate con i progetti milanesi dell’inizio del millennio. L’aura di un luogo di cui Albanese dichiara di «subire appassionatamente la bellezza» ispira un approccio silenzioso, rispettoso, impostato sulle categorie del semplice e dell’utile. L’obiettivo non è l’affermazione del segno architettonico, del design originale, ma piuttosto la massima valorizzazione e cura di ciò che esiste già. Così, il complesso è suddiviso in più settori, per ciascuno dei quali è prevista una diversa profondità d’intervento, che commisura l’intensi- tà della trasformazione alle esigenze specifiche dei programmi che vi s’insediano.
L’aura di un luogo di cui Albanese dichiara di «subire appassionatamente la bellezza» ispira un approccio silenzioso, rispettoso, impostato sulle categorie del semplice e dell’utile.
La delicatezza di queste strategie di “retrofitting” traduce l’attenzione alla realtà socio-culturale di un quartiere in rapida crescita, rispetto al quale Lindower 22 si costituisce come una “membrana”, una soglia in cui s’incontrano e reagiscono virtuosamente energie endogene ed esogene. Il complesso si propone come un centro creativo multifunzione, un “hybrid hub” a di- sposizione per artisti, ricercatori, start-up, associazioni culturali, fashion designer, gallerie d’arte e piccoli artigiani, che scommette sulla cultura e sulla dimensione collettivo-comunitaria come volani per innescare dinamiche positive d’inclusione. A Lindower 22 si stabilisce anche la terza sede di ASA Studio Albanese, che si aggiunge a quella vicenti- na, sistemata nell’ex-tipografia Rumor e a quella Milanese, nell’ex fabbrica Faema di via Ventura, entrambe del 2000. Con un approccio coerente e intrinsecamente sostenibile, ogni espansione di ASA Studio Albanese è stata così l’occasione per risignificare un’architettura storica dismessa come spazio del lavoro e della creatività contemporanea.
«Un professionista professa, fa insomma un atto di fede, e su quello basa le proprie azioni. Io rivendico al contrario di essere un dilettante, d’imparare facendo e di divertirmi mentre imparo. Mi riconosco in tre parole: intuizione, istinto e passione, un termine che ha la stessa radice di passivo e che allude a qualcosa di non controllabile», sostiene Albanese, un abile narratore orgoglioso del suo essere un outsider sui generis, del suo dilettantismo felice e del suo pragmatismo a-dogmatico di cui lui e il suo studio hanno dato innumerevoli prove.
(Alessandro Benetti)
"Un professionista professa, fa insomma un atto di fede, e su quello basa le proprie azioni. Io rivendico al contrario di essere un dilettante, d’imparare facendo e di divertirmi mentre imparo." Flavio Albanese